Demansionamento e dequalificazione professionale
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Demansionamento e dequalificazione professionale: l’evoluzione della prova del danno Costituisce un elemento contrattuale di equilibrio, nel rapporto di lavoro subordinato, la corrispondenza tra le mansioni assegnate e la qualifica professionale rivestita dal lavoratore. Nel contesto dei rapporti di lavoro subordinato, la corrispondenza tra le mansioni assegnate e la qualifica professionale rivestita dal lavoratore costituisce un elemento centrale dell’equilibrio contrattuale. Il lavoratore si definisce attraverso le mansioni che svolge, le competenze che usa e il percorso di carriera che costruisce. Modificare questi aspetti equivale a minare la sua dignità, autonomia e le sue possibilità di crescita all’interno dell’azienda. Si è in presenza di demansionamento quando il lavoratore viene adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle originariamente pattuite o corrispondenti alla categoria di appartenenza, con un inevitabile scadimento qualitativo del proprio ruolo. Si è invece in presenza di dequalificazione professionale quando, pur in assenza di un formale abbassamento delle mansioni, la nuova posizione risulta svuotata di contenuti, marginale o comunque priva di coerenza con il patrimonio professionale del lavoratore. In entrambi i casi, si genera una frattura nel patto di reciproco affidamento su cui si fonda il rapporto di lavoro: da un lato si altera la struttura funzionale del contratto; dall’altro, si mortifica la persona del lavoratore nella sua dimensione tecnico-professionale e relazionale. Due recenti ordinanze della Corte di Cassazione (n. 24133/2025 e n. 23020/2025) contribuiscono a chiarire (o, meglio, ribadire) principi essenziali riguardo al diritto al risarcimento del danno da demansionamento / dequalificazione e, in specie, all’onere della prova, con particolare riferimento all’impiego delle presunzioni ai sensi dell’art. 2729 c.c. Il danno da demansionamento non è in re ipsa. Ordinanza n. 23020/2025